Perdita della memoria - Ruoteclassiche
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08/05/2013 | di Raffaele Laurenzi
Perdita della memoria
“Si-può-fare” sostiene l’amico Alessandro Barteletti nell’editoriale di Ruoteclassiche di aprile. Se è stato possibile realizzare un’Alfa Romeo genuina come la “156”, che emana essenza di Alfa da ogni prospettiva, è legittimo sperare che certi valori si possano ancora recuperare e trasferire ai modelli futuri. Un’osservazione, la sua, maturata dopo che un giorno, in una via […]
08/05/2013 | di Raffaele Laurenzi

"Si-può-fare” sostiene l’amico Alessandro Barteletti nell'editoriale di Ruoteclassiche di aprile. Se è stato possibile realizzare un’Alfa Romeo genuina come la “156”, che emana essenza di Alfa da ogni prospettiva, è legittimo sperare che certi valori si possano ancora recuperare e trasferire ai modelli futuri. Un’osservazione, la sua, maturata dopo che un giorno, in una via di Milano, ha osservato una “156” parcheggiata fra due macchine qualsiasi. È capitato anche a me, attraverso il finestrino del tram, di osservare un’Alfa Romeo: sfortunatamente non una “156”, ma una “MiTo” color Bianco Gardenia incastrata fra un’Audi “A1” e una Peugeot “208”. Le mie conclusioni - facile immaginarlo - sono state diverse da quelle di Barteletti.

La mascherina a tre lobi non basta
Se guardo la “MiTo”, capisco che la personalità e il fascino delle Alfa Romeo di una volta si sono persi per sempre, e con essi la speranza di una riscossa. Certo, anche la “MiTo” riprende gli stilemi tradizionali della Casa, ma siamo lontani dal risultato raggiunto con la “156”, che rimane un caso isolato nella storia recente dell’Alfa Romeo. La linea un po’ goffa della “MiTo” è, in parte, conseguenza delle inevitabili sinergie, ma soprattutto della perdita di memoria. Perché non bastano una mascherina trilobata e un padiglione rastremato per fare un’Alfa. Walter de’ Silva lo aveva capito e, per respirare “essenza di Alfa”, si era imposto un corso “full immersion” nelle sale del museo di Arese.
Quelle macchine grandiose carrozzate Touring, Zagato, Bertone o Pininfarina erano state una fonte d’ispirazione inesauribile per il designer italiano, imprudentemente lasciato migrare all’Audi. Ma ciò si riduce a mero esercizio accademico se poi non credi fino in fondo in quello che fai, se non sei permeato di quella cultura della marca che matura attraverso la lunga militanza in fabbrica, dove il più anziano trasmette al più giovane storia, valori e segreti come l’artigiano coi ragazzi della sua bottega. Quando l’attività di progettazione e collaudo fu spostata da Arese a Torino (c’era pure il rischio che la chiamassero “ArTo”!), molti tecnici se ne andarono e non poterono trasmettere il loro sapere alle nuove generazioni. Si trattava di tecnici nati e cresciuti in Alfa, che avevano lavorato alla ricostruzione del Portello e poi alla nascita della “1900”; che sapevano i segreti per costruire macchine che, per linea e caratteristiche stradali, divennero il riferimento di tutta la concorrenza.

La caricatura di un’Alfa
Ed ecco i risultati: vetture di maniera come la “Giulietta” o caricature come la “MiTo”, che sembra uscita da un film d’animazione. L’ho già scritto in queste pagine: le Alfa di una volta, quelle che ti conquistavano prima con la linea e poi con le loro doti stradali, che ti calzavano come un guanto e ti infondevano sicurezza, non torneranno più. Resta il caso “156”. Come c’è riuscito de’ Silva? Non lo so. Posso perfino supporre che fosse dotato di poteri medianici e che all’epoca della “156” lui e i suoi collaboratori, seduti intorno a un tavolino con tre gambe, avessero evocato gli spiriti degli autori delle più belle Alfa Romeo del passato per conoscerne i segreti e farsi guidare la mano. Più realisticamente, credo che la “156” rappresenti l’eccezione, l’opera di un fuoriclasse che, per una serie di circostanze favorevoli, ha saputo riannodare i fili della memoria che la smobilitazione di Arese aveva interrotto. La realtà di oggi è l’integrazione con i modelli Chrysler: necessaria, ma non senza sacrifici per l’Alfa.

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