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Una Isetta nella tempesta

Un paio d’anni fa il romanzo più venduto in Germania, “Volevamo andare lontano”, aveva tra i suoi protagonisti la mitica micro car. E tanta passione automobilistica come contorno. Trecentomila copie in pochi mesi, ben accolto anche in Italia e trasportato sul piccolo schermo in una serie tv.

A innovazione, locomozione e divulgazione, le 500 pagine aggiungono l’emigrazione dei popoli e la palpitazione di cuori. Ingredienti sicuri, con sullo sfondo il “boom dopo la tempesta”: quei primi anni ’50 che né in Germania, né in Italia sono ancora quelli del miracolo economico ma, visto cos’è passato, lasciano ben sperare.

Fascinazione italiana. L’autore si chiama Daniel Speck, premiato sceneggiatore per cinema e televisione, bavarese doc, ma che di mediterraneo non ha solo i tratti somatici. Speck, nato nel 1969, ha cominciato a frequentare l’Italia da bambino, sulla Volkswagen dei genitori. Partiva per il paese del sole con gioia e curiosità, guardando la mamma mettere in valigia il pallido caffé Jacobs (quello “bruciato” italiano, per lei, era imbevibile) e il babbo trattare con diffidenza persino i doganieri. Ma subito, giù dal Brennero, arrivava la luce nuova, un’aria più tiepida, il verde che riempiva di gioia.  E poi il Lago di Garda, gli ulivi e le palme. Le prime mai viste! Più si scendeva nello stivale, più le sorprese aumentavano e la gente che le offriva con gentilezza assomigliava a quei “lavoratori-ospiti” che riempivano, da tempo, i quartieri poveri della sua città. Ma non avevano ancora trovato la strada per uscirne.

L’ovetto Iso. Sono queste le stesse immagini che Speck mette in uno dei primi capitoli, quando il giovane ingegnere Vincent viene mandato a Milano dalla BMW, per studiare un prodotto nostrano che la interessa. E’ la Isetta, la prima micro-car moderna che in Germania fece poi tanta fortuna. Come i nostri lettori ben sanno, la Isetta era stata partorita in Italia nel 1953, da un team di tecnici bravissimi e che sapevano guardare lontano. Ma l’ovetto su ruote era stato un po’ snobbato dal pubblico nazionale, che preferiva risparmiare di più ma salire su una “vera “ 600. E poi  strangolato definitivamente dal potere Fiat, che invece ne aveva colto il pericolo, se solo determinate condizioni si fossero manifestate. Così la licenza era stata, gioco forza,  proposta all’estero e il personaggio Vincent, frutto dell’invenzione di Speck, spedito alla Iso Autoveicoli di Bresso, per fare prove e valutazioni.

Tra Italia e Germania. La lettura scorre leggera e il bel teutonico sceso dalla sua moto incontra Giulietta, una ragazza siciliana, minuscola e ben fatta, impiegata della Iso ma, soprattutto, diplomata in tedesco. Così si profila la saga transfrontaliera e tribolata, con la giovane poliglotta affascinata dal nuovo venuto, ma che ha già promesso la sua mano a un ragazzo  del sud. La prima parte del libro è molto divertente. Si va a zonzo, con gli occhi di uno straniero, nella Milano del dopoguerra, tanto diversa da quella di oggi. Si entra nei capannoni che Renzo Rivolta, già imprenditore di frigoriferi e di scooter, aveva costruito rinunciando a uno spicchio di parco della sua villa. Tra progettisti e collaudatori, il padrone (che nella realtà parlava bene tedesco, ma nel libro c’era bisogno di un’interprete) e i suoi ossequiosi operai. La parte centrale e lo sviluppo del racconto diventano più drammatici. Oltre alla tempesta storica che ancora incombe, ce n’è una passionale e umana, che terrà il lettore sul filo fino all’epilogo. 

Il bello della multiculturalità.  “Sono diventato uno specialista di storie multietniche, multiculturali, multifamigliari”  scherza Daniel Speck, che dopo la saga dell’Isetta ha pubblicato nel 2019, il suo secondo romanzo, “Piccola Sicilia”. – Ho avuto successo anni fa con una storia di incroci umani per la tv e da allora vengono da me quando un tedesco si innamora di una turca,o di una afgana, o una palestinese e mi dicono “fanne una bella storia”. E io ne godo, perché sono storie che vengono da lontano, ma sono vicinissime al nostro tempo.

– “Bella Germania” – il titolo dell’edizione tedesca del suo primo libro – è quasi un gioco di parole. Ma per voi cosa significa?

– C’è dentro tutto un mondo. Per qualche ragione, nemmeno troppo misteriosa, i tedeschi sono da sempre innamorati dell’Italia. Nel senso più letterale del termine. Attraversano il Brennero e perdono la lucidità (che per un tedesco è grave). Vi amano e perdonano tutto.

– Si, ma per qualche altra ragione, ancora meno misteriosa, i tedeschi sopportano poco l’Italia. Potendo, cambierebbero tutto.

– Forse è così, ma alla fine trionfa l’amore. Anche perché genio e sregolatezza degli sono indomabili.

– Il tema delle due culture e dell’emigrazione è il perno del suo lavoro. Come vede il mondo tra altre due generazioni?

– Io sono ottimista. Credo all’integrazione soprattutto se il Paese che ospita, chi è chiamato a decidere, fa le mosse giuste. Bisogna dare prima di tutto il permesso di lavorare, di affrancarsi dalla povertà, di costruire una nuova vita. Poi, l’istruzione: i figli dei nuovi cittadini devono formarsi nelle scuole pubbliche del Paese. Se queste condizioni sussistono, chi emigra vorrà entrare a far parte del mondo che lo ha accolto.

– E in Germania, con gli italiani, con la sua protagonista Giulietta, il suo marito italiano Enzo, suo figlio Vincenzo, com’è andata?

– Non così bene. La formula stessa dei “lavoratori-ospiti”, imposta dagli accordi bilaterali degli anni ’50, dava una sensazione di temporaneità, di fragilità. La gente, almeno la maggior parte, ha accolto gli italiani con mille pregiudizi, talvolta disprezzo. 

– I pregiudizi, i cliché. Nel suo libro ce n’è una dose ragionevole, ma anche alcune idee di rottura. L’inizio e l’idea dell’Isetta, per esempio.

– I luoghi comuni, le battute anche razziste, fanno parte della mentalità tedesca di allora, e – in misura molto ridotta – persino di adesso. Ma il mio Paese è cambiato moltissimo, imparando e prendendo tanto dalla cultura italiana. Io ero alla ricerca di qualcosa di diverso dai “soliti” emigranti, della fuga dalla povertà e della retorica sull’ “italietta”. E così ho trovato, per caso, la storia della piccola vettura nata a Milano, incompresa ma geniale, che salva la grande BMW, troppo grande per sfamarsi nella Germania in macerie.  Una storia che anticipa la creatività italiana che – oggi come ieri – lascia i tedeschi a bocca aperta.

 

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