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Automobili nella tempesta: l’auto che accorciò il tempo

La Graf & Stift su cui viaggiava l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo ha attraversato la più terribile delle tempeste. Tra decisioni, fatti e coincidenze di una giornata fatale, è lei che portò la vittima all’assassino. E il mondo in un baratro che ha reso breve un secolo.

Avrete sentito parlare del “Secolo breve” come interessante definizione del ‘900. Una delle ragioni per la quale il Ventesimo sarebbe stato più compatto di altri è lo stretto legame che fonde (in un certo senso accorciandoli) i suoi avvenimenti principali. Le due guerre mondiali, innanzi tutto, che a ben vedere furono una cosa sola, l’una figlia dell’altra, innescate dall’assassinio di Sarajevo e dalla pace improponibile di Versailles. Se tutto questo è vero, allora, esiste una automobile su cui viaggiano le anime di settanta milioni di morti. Tra tutte le “auto nella tempesta” di cui vi stiamo raccontando, è lei la regina: la Graf & Stift scelta per trasportare, il 28 giugno 1914 l’erede al trono dell’Austria-Ungheria nella malaugurata visita alla citta bosniaca. Oggi, la grande torpedo è il pezzo forte del museo dell’Arsenale di Vienna. E’ esposta tra le immagini, stampate a tutta parete, delle ultime ore di vita dell’Arciduca. Sono anche le ultime, veramente serene, del Secolo breve.

Una storia diversa. L’intrigo dei “se”, di fronte agli avvenimenti epocali, ha sempre fascino e con esso si scrivono i libri di fantapolitica. Bene, se Francesco Ferdinando e il suo seguito non avessero voluto – incredibilmente – continuare il viaggio, dopo che una prima bomba era stata lanciata contro il corteo, se l’autista non avesse sbagliato strada, se la vettura non avesse rallentato, fin quasi a fermarsi, proprio davanti alla pistola di Gavrilo Princip, il mondo avrebbe avuto buone chances di essere diverso. Non pochi storici, infatti, concordano nell’immaginare un impero asburgico rifromato dall’Arciduca, se ne avesse avuto il tempo (Francesco Giuseppe morì nel 1916). Le idee liberali, se fossero andate in porto, avrebbero tolto qualche argomento ai bellicosi irredentisti e ai nemici interni dell’Austria-Ungheria,  che erano, tra l’altro, proprio gli ungheresi. E tutti sappiamo che, se il “casus belli” non fosse mai maturato, se la Prima guerra mondiale non fosse scoppiata, probabilmente Adolf Hitler sarebbe rimasto un caporale con l’hobby della pittura e Mussolini avrebbe fatto il giornalista.

La vettura. Ma andiamo a conoscere la protagonista della tempesta di questa settimana, che nella sala a lei dedicata a Vienna è avvolta dalle reliquie insanguinate dell’assassinio. Si tratta di una Graf & Stift  “double phaéton”, che significa – come per le carrozze – “a doppia fila di poltrone”.  La Graf era allora una marca prestigiosa, una specie di Rolls Royce teutonica. Fu, tra l’altro, la Casa che sperimentò per prima il motore e la trazione anteriore. Un progetto splendido, ma di cui, all’alba del 1900, in pochi intuirono i vantaggi.  L’auto apparteneva al conte von Harrach, che l’aveva acquistata nel 1910. Ne andava fiero e la offrì alla coppia imperiale per il giro della città.

Una visita rischiosa. Come è noto non tirava un’aria molto asburgica a Sarajevo. La creazione di uno stato indipendente (1878), il miraggio della “grande Serbia”, l’annessione austriaca della Bosnia (1908) avevano scatenato gli irredentisti. A Vienna – ma anche a Londra e Parigi, in una opposta prospettiva –  la nuova repubblica dei Balcani era guardata come una scheggia impazzita, pronta a tutto pur di scardinare l’equilibrio degli imperi centrali. I “servizi”, come si direbbe oggi, erano avvisati dei rischi di attentato e lo stesso Arciduca pare scherzasse, in quei giorni, sul fatto che non sarebbe morto vecchio. Ciononostante si organizzò la visita, si decisero le manovre militari – che, oggi come allora, non portano mai la distensione – e si offrì una insperata occasione ai cospirati della “Giovane Bosnia”. Questi, saputo della venuta di Francesco Ferdinando, abbandonarono ogni altro obbiettivo.

Giornata infausta. I fatti che riguardano il manipolo di attentatori, tutti tra i 17 e i 20 anni, sono abbastanza noti e per chi volesse rispolverarli è pronto in libreria il bel “Una mattina a Sarajevo” di David James Smith, edizioni LEG. Dovendo però restare dal punto di vista della automobile, immaginiamola caricarsi del proprietario conte Harrach, del suo autista, del Governatore Potiorek e della augusta coppia, per condurre tutti in municipio, ad ascoltare i discorsi di circostanza. Il viaggio dalla stazione, con sette automobili in tutto, è abbastanza breve, due piccole ali di folla cingono spesso il corteo. Alle 10.15 entra in scena il primo attentatore, ma la velocità del passaggio e la vista delle loro Maestà tra la folla – forse più quella della moglie innocente che quella dell’Arciduca – paralizza l’azione: la granata del carpentiere Mehmedbasic resta nascosta sotto la giacca. Poco più avanti è pronto Nedjo Cabrinovic, operaio anarchico 19enne, che lancia invece la sua bomba. Questa urta la fiancata dell’auto, non scoppia, rotola sul selciato ed esplode sotto una vettura al seguito causando numerosi feriti. E qui avviene l’incredibile.  Mentre l’attentatore è braccato nel fiume in cui ha cercato di suicidarsi, in pieno trambusto cittadino, ospiti e autorità decidono di continuare il programma. L’unica cosa che cambia sono le parole di Francesco Ferdinando, che – giunto al municipio – interrompe il saluto ampolloso del sindaco gridando, “ma mi faccia il piacere! Vengo in visita alla vostra città e ci accogliete con una bomba”. Le facce della variopinta delegazione che porge i suoi omaggi al futuro imperatore sono da paura. Le istantanee scattate all’ingresso restituiscono tutto il dramma del momento.

L’attimo fatale. Poi il protocollo ha la meglio, si ricambiano i saluti, si torna in strada con i pennacchi al vento, mentre la Graf& Stift attende alla base della scalinata. Il secondo appuntamento con la storia lo si incrocia qui.  Francesco Ferdinando chiede di andare a far visita ai feriti dell’attentato di poco prima. Si improvvisa un itinerario alternativo, che forse – vista la giornata – è anche meglio. Partenza, ma l’autista dell’auto che precede non ha capito, tutti imboccano il lungofiume Appel, finchè il generale Potiorek apostrofa l’ autista: “Ma no, stiamo sbagliando, si era detto di passare per l’ospedale. Gira di qua!” Il conducente inchioda. E dove lo fa? Proprio avanti a Gavrilo Princip, diciannove anni, ex-studente, terzo dei sette attentatori, che dopo aver saputo che la bomba del mattino era andata a vuoto, sta quasi per tornarsene a casa. Il bersaglio è lì, fermo, a pochi metri: Gavrilo non può non sparare, non può sbagliare. Un colpo al collo all’erede al trono, uno destinato a Potiorek – ma deviato – al ventre della Arciduchessa. Le lancette della storia prendono a girare vorticosamente, nell’unica direzione possibile. L’erede al trono, ha il tempo di supplicare la moglie “Non morire Sophie! Fallo per i nostri bambini…” Poi, al conte Harrach, l’uomo che aveva organizzato un’allegra passeggiata sulla sua auto scoperta, inizia a ripetere “Non è niente, non è niente… non è niente…”  Un attimo dopo sono morti, un mese dopo inizia la prima Guerra Mondiale.

 

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