Automobili nella tempesta, l’ultimo Spider - Ruoteclassiche
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11/05/2021 | di Giosuè Boetto Cohen
Automobili nella tempesta, l’ultimo Spider
Automobili nella tempesta ci riporta ai primi anni 2000, durante la gestazione difficile dell'Alfa Romeo Spider.
11/05/2021 | di Giosuè Boetto Cohen

Sono passati undici anni, ma nel listino Alfa Romeo mancano ancora uno spider e un coupé. E quando arriveranno, cosa saranno? In attesa di scoprirlo, ripercorriamo, con notizie nuove, la sfortunata avventura dello Spider del 2006: un intrigo internazionale in cui recitarono Fiat, Italdesign, Pininfarina, e persino Bertone.

Sta per debuttare la mostra che Pininfarina ha progettato per celebrare i novant’anni del marchio, poi diventata la festa dei “90+1” grazie ai piaceri della pandemia. L’evento sarà ospitato al MAUTO di Torino per tutta l’estate. E avremo ampio modo di riferirvene.
Ma la nostra rubrica si chiama “Automobili nella tempesta” e quindi dobbiamo andare a navigare in acque burrascose, per tenere alta l’attenzione e lo spirito degli articoli. Uniamo allora la più gloriosa firma della carrozzeria, il tempo dell’estate e le ricchissime memorie dell’ingegner Dario Trucco (da poco pubblicate), che nella sua lunga carriera militò sia a Cambiano che ai vertici dell’Italdesign. È quanto basta per raccontare, con qualche riflessione nuova, la storia non proprio fortunata dell’ultimo spider Alfa Romeo. Quel modello che vinse il premio “Cabrio of the year” nel 2006 e, allo stesso tempo, riuscì a vendere solo 12.488 pezzi, prima di essere spedito in soffitta dopo nemmeno quattro anni.

Nata sotto una cattiva stella. Questo flop commerciale a dir poco imbarazzante (la precedente Spider del ‘95 Pininfarina/Fumia vendetta 40 mila esemplari, la grande Duetto 124 mila) ha una storia complessa, accomuna le vicende di Pininfarina, Italdesign e, indirettamente, anche quelle di Bertone. Quest’ultimo, infatti, si vide bocciare da Fiat uno spider tratto dalla sua Alfa GT del 2003 e poi perse la gara per la produzione a Grugliasco di Brera e derivate. Probabilmente il colpo di grazia verso la successiva, tristissima bancarotta. Ma andiamo con ordine.
“Come partiamo male con questa automobile”. Così parlò Aldo Mantovani – in mezzo a vari epiteti in piemontese stretto – quando il primo pianale dell’Alfa 159 arrivò alla Italdesign. E se la versione berlina, bellissima e di successo, riuscì a a convivere con quel disgraziato telaio, la scocca accorciata delle versioni Brera e Spider sarebbe stata una delle cause principali del fallimento dei due progetti. Il pianale, qualcuno lo ricorderà, era nato da una collaborazione che Fiat aveva offerto a GM Australia e Saab. I lavori erano affidati a personale italiano di scarsa esperienza, “politicamente” dislocato in Svezia. Forse anche per questo i due partner stranieri si erano presto sfilati e il frutto dell’avventura era il “disastro” (parole testuali) che Mantovani e Trucco stavano ora considerando nei loro uffici di Moncalieri. Un insieme non ottimizzato, pieno di modifiche e ripensamenti, con rinforzi e appesantimenti inutili. In particolare, tra l’avantreno e la porta, c’erano da cinquanta a settanta chili di troppo. E questo la diceva lunga sul resto.

Sfida al ribasso. Quando, dopo alcuni mesi, la proposta Italdesign per mettere in produzione i derivati sportivi dalla 159 fu accettata, il problema si ripropose sulle scocche a passo ridotto, che invece avrebbero dovuto essere leggere e prestanti. E a poco valsero gli artifici dei due ingegneri, che oltre ai prototipi produssero anche un primo lotto di vetture, mentre Pininfarina faceva pratica e attrezzava i suoi impianti per la grande serie.
Fin qui la partenza pesante di Brera e Spider era ancora nascosta sotto le lamiere. Ma le cose si ingarbugliarono ulteriormente. Inutile dirlo, per mano di Fiat. Dopo aver selezionato Pininfarina e Italdesign in una gara a cui aveva chiamato anche Magna, Matra e Heuliez, corso Marconi cominciò a spremerle come limoni. Di fatto si chiedeva a Pininfarina di finanziare la sua parte di lavoro, assumendosi una parte importante del rischio sul successo delle vetture. Le cifre dell’esposizione erano prossime al valore in borsa della società, e questo accadeva dopo aver già accettato al ribasso il prezzo della fornitura, grazie agli sconti proposti dai concorrenti francesi.
Andrea Pininfarina, che godeva di grande credito (Agnelli lo chiamava “il mio D’Artagnan”) e in azienda non aveva critici, decise di accettare la sfida, sostenuto dalle banche. Italdesign no: Trucco e Mantovani scelsero di ridurre il loro ruolo a fornitori dei colleghi di Cambiano – così divenuti capocommessa – e per la sola ingegnerizzazione delle scocche.

Il paradosso. In verità Italdesign aveva molto lavorato per costruire la partnership e presentarsi come un’accoppiata forte agli occhi di Fiat. Non era stato facile far digerire a Giugiaro il fatto che lo spider, disegnato da lui, uscisse con il marchio del concorrente; così come il vecchio Sergio Pininfarina non aveva mai capito bene perché si dovesse assemblare a Grugliasco un’auto di Giorgetto. Ma tant’è. Il dado era tratto e all’Italdesign – sia pur con dispiacere – non rimaneva che ridimensionare il proprio coinvolgimento: il rischio finanziario era troppo elevato, soprattutto non potendo controllare nulla della futura vita del prodotto.

Sportività mutilata. E ben si fece, col senno di poi. L’Alfa Brera di serie – vero miracolo di Giugiaro, che era riuscito a mantenere tutto il davanti della 159 d’origine e molto dello charme del prototipo – deluse quasi tutti, non appena ci si mise al volante. Invece di un’auto di lusso, che sfidava il fiore della concorrenza, il marketing Fiat l’aveva posizionata a metà strada, con interni anonimi, motori poco adeguati e addirittura il diesel. Se ne vendettero trentamila, le ultime con grande fatica. Per lo spider le cose andarono peggio, con il colosso torinese che, una volta di più, aveva tra le mani un prodotto di fascino (se non di qualità eccelsa) e sembrava non sapere che farsene. Dopo un paio d’anni, resosi conto di limiti della parte telaistica e degli errori di marketing, qualcuno tentò di porvi rimedio e si mise a valutare i costi di un rilancio. Ma su tutto calò la scure di Sergio Marchionne, che nel 2010 chiuse i rubinetti. L’incredibile era successo: il marchio Alfa Romeo – l’archetipo dell’auto sportiva italiana per tutti (e mentre lo scriviamo sono già passati undici anni) rimaneva senza uno spider, senza un coupé.
Andrea Pininfarina, nella sua sfortuna, non ebbe il tempo di soppesare la débacle delle vendite e le gravi ripercussioni sulle finanze di casa. Chi venne dopo di lui cercò di rinegoziare le royalties dovute a Italdesign, a cui venne comunque saldata ogni pendenza. Bertone, intanto, si avviava a festeggiare il centenario. Come Nuccio, dal letto di morte, aveva chiesto di fare alla moglie Lilly. A qualunque costo. Dalle candeline ai libri in tribunale, però, non sarebbero passati due anni.

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