Maserati 4.24v (1991), una scelta fuori dal coro - Ruoteclassiche
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06/07/2023 | di Marco Di Pietro
Maserati 4.24v (1991), una scelta fuori dal coro
Per chi si vuole avventurare nell’universo Biturbo, questa 4 porte è un’ipotesi da considerare anche in ottica collezionistica. La voce del V6 di due litri, i 245 CV e l’assenza di elettronica regalano momenti di autentico piacere alla guida
06/07/2023 | di Marco Di Pietro

La sigla del nome racchiude tutta la sua essenza: Maserati 4.24v, cioè quattro porte, motore 24 valvole. Ovvero uno degli upgrade più riusciti della Biturbo, la serie che, pur con tutti i suoi difetti, ha consentito al marchio del Tridente di sopravvivere e, in una qual misura, di prosperare con alti e bassi tra gli anni 80 e i primi anni 90. Col senno di poi, oggi possiamo affermare che se Alejandro De Tomaso non avesse inventato la Biturbo, la Maserati sarebbe senz’altro andata ad arricchire la pletora delle marche scomparse.

Quattro porte da collezione. La 4.24v è una delle versioni più interessanti, dal punto di vista collezionistico, della numerosa famiglia delle Biturbo, assieme alla gemella 2.24v (a due porte). Quest’ultima nasce nel 1989, e adotta per la prima volta il motore tipo AM475, due litri di cilindrata a iniezione che, grazie alle 4 valvole per cilindro, raggiunge i 245 CV di potenza. È destinata a ricoprire per qualche anno il ruolo di versione più sportiva: quello, per intenderci, che negli anni precedenti era interpretato dalle Biturbo S (a carburatore) e poi SI (a iniezione). Il salto di potenza rappresenta un incremento del 20%: niente male. Il tutto, coadiuvato da un sofisticato sistema di controllo elettronico delle sospensioni (all’inizio soltanto a richiesta).

Punta di diamante. La 4.24v è dell’anno seguente: il suo obiettivo dichiarato è rappresentare la punta di diamante della gamma delle versioni a 4 porte con motore 2 litri (all’epoca, in Italia, l’Iva “pesante” sconsigliava l’acquisto delle auto con cubatura oltre 2.000). La scocca della 4.24v era pressoché identica a quella dell’ammiraglia della famiglia Biturbo, la 430 (con motore di 2.8 litri). Dotazione più lussuosa: pelle di qualità, vera radica di noce, sedili a regolazione elettrica, cerchi OZ in lega a sette razze e sospensioni elettroniche. Rimasta in produzione fino al 1993 (per complessive 874 unità) e oggetto di un moderato restyling (degni di nota i fari poliellissoidali) nel 1992, è ancora oggi considerata il modello top delle Biturbo a 4 porte con cilindrata “anti Iva pesante”.

Solo 40 mila km all’attivo. L’esemplare della nostra prova ha una storia un po’ diversa rispetto a quella capitata a quasi tutte le 4.24v. Auto che, generalmente, dopo un primo proprietario dalle eccellenti disponibilità economiche, hanno percorso con estrema rapidità la parabola discendente, finendo nelle mani di possessori tanto dal piede pesante quanto dal portafogli leggero, e che quindi hanno vissuto lunghi anni di carestia manutentiva e di riparazioni il più delle volte raffazzonate. La nostra protagonista, invece, è stata trattata coi guanti di velluto per un decennio, centellinata per soli 40.000 km dal primo intestatario e, infine, come si conviene a una proprietà appartenente a chi non segue le logiche del mercato di sostituzione, accantonata in un box per oltre dieci anni in attesa di un cavaliere bianco.

Il salvatore si chiama Niccolò Conti, libero professionista di Toscolano Maderno (sul Lago di Garda), trentenne nel 2011 quando, alla ricerca di una berlina sportiva con prestazioni da top car, ma con prezzo decisamente abbordabile, viene a conoscenza della 4.24v messa a riposo. La acquista praticamente a “scatola chiusa”, dopo averle dato una sommaria occhiata. Seguendo più l’istinto che la ragione. L’offerta è ovviamente bassa, perché i rischi di danni costosi dovuti al fermo prolungato sono elevati, ma il proprietario accetta di buon grado. Niccolò carica l’auto su un carrello, senza nemmeno tentare l’avviamento del motore, e la trasferisce direttamente in officina per un maquillage tecnico dalle molte incognite.

Intervento riuscito. Fortunatamente l’operazione si rivela fattibile: il V6 riprende vita gagliardamente, dopo la sostituzione della cinghia di distribuzione e della pompa dell’acqua, la revisione degli iniettori e una messa a punto da parte di un esperto. L’intervento non è stato certo a buon mercato, perché i ricambi delle Biturbo costano come quelli di tutte le Maserati. Conti riesce anche a trovare un serbatoio della benzina nuovo di zecca, fondo di magazzino di una ex concessionaria del Tridente: lo paga una cifra considerevole, ma evita danni sicuri dovuti alle morchie depositate in quello vecchio. Per la carrozzeria, basta un’accurata lucidatura.

Grintosa, quasi scorbutica. Per l’interno, pulizia di fino e reincollaggio del cielo: nulla d’altro. Insomma, un ripristino che ha consentito di contenere le spese al di sotto del valore di mercato del tempo (la 4.24v valeva 9.000 euro se in perfetto stato, come l’esemplare in questione; oggi ne servono 18.000, il doppio). La berlina del Tridente ha risposto perfettamente alle attese di Niccolò Conti: veloce, grintosa, quasi scorbutica, impone una guida attenta perché non è dotata dei sistemi di controllo della stabilità come le auto di oggi. In compenso i suoi 245 CV, se confrontati con auto moderne di potenza similare, sembrano ben di più. Perché è la modalità di erogazione a essere totalmente differente.

Il doppio turbo è piuttosto vuoto sotto i 2.500-3.000 giri; superato questo limite, esplode senza ritegno e sale verso i 6.500 giri con una progressione impressionante, qualsiasi marcia sia inserita. Il V6 del Tridente ha una voce dal timbro metallico molto gradevole, possente, corposa. Le due turbine fischiano come un merlo canterino. Il carattere della 4.24v, però, offre qualche sfumatura differente rispetto alle prime Biturbo a carburatori. È più trattabile: poderoso, ma leggermente più addomesticato. Si percepisce che è un cavallo di pura razza modenese: galoppa per chilometri a tutta birra, ma non si imbizzarrisce.

La tenuta di strada è degna di un’auto moderna, se l’asfalto è perfetto. Appena inizia a piovere, però, occorre dosare l’acceleratore con parsimonia, altrimenti si deve correggere un devastante sovrasterzo con grande prontezza. Una manovra peraltro facilitata dallo sterzo servoassistito che, più cresce la velocità, più diventa pesante e diretto. Un deciso passo in avanti rispetto alla versione non assistita delle prime Biturbo, che avevano proprio nello sterzo poco pronto una delle peculiarità peggiori. La 4.24v sa anche essere berlina comoda, quasi come un’ammiraglia di oggi.

Artigianato italico. L’abitacolo è un tripudio di artigianato italico che, se ben curato, non soffre le ingiurie del tempo. Per concludere: questa versione è una delle migliori Biturbo di sempre. Rara, non troppo costosa (probabilmente ancora per poco) e gestibile. Certo, non ha il fascino delle ancor più rare Karif, Racing e Ghibli, e forse nemmeno l’appeal di una Spyder Zagato. Ma, statene certi, è un investimento oculato, che appaga il portafogli e il cuore.

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