Rover V8, con l'America nel cuore - Ruoteclassiche
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28/04/2023 | di Fabrizio Greggio
Rover V8, con l’America nel cuore
Essenza del made in England, nascondono nel cofano un otto cilindri d’origine Buick: moderno, potente, in lega di alluminio. troppo costoso per il mercato statunitense. Dal 1967 al 1986 fu il cavallo di battaglia del marchio britannico, che lo montò con successo sulle sue ammiraglie. tre modelli che formano oggi una collezione a tema abbastanza facile da reperire
28/04/2023 | di Fabrizio Greggio

Qual è il filo conduttore che lega indissolubilmente le tre ammiraglie Rover protagoniste del nostro servizio? Certo gli estimatori del marchio potrebbero, sottolineando così la loro competenza in materia, individuare questo comune denominatore nella mano di David Bache, il designer giunto nel 1954 in Rover che firmò il progetto stilistico di tutte e tre le vetture. Ma per il grande pubblico a unire la P5B (denominata 3.5 Litre), la P6B (3500) e la SD1 (3500), modelli al vertice della produzione Rover dal 1967 al 1986, è il motore V8 di 3,5 litri, un’autentica icona del motorismo britannico.

Silenzioso e regolare. Infatti, oltre alle Rover, ha equipaggiato per circa un trentennio, pur con vari aggiornamenti, le più blasonate vetture d’Oltremanica: Land Rover, Range Rover, MG, Morgan, Marcos, Triumph, TVR. Ancora oggi questo motore di origine Buick stupisce per la silenziosità, elasticità e regolarità di funzionamento. Doti sottolineate da Carlo Sequi, medico milanese proprietario sia della 3.5 Litre Coupé del 1970 in livrea Arden Green sia della V8-S del 1980, e da Rodolfo Milani, anch’egli medico, giunto alla guida della sua 3500 S del 1973 con l’immancabile ruota di scorta montata sul cofano bagagli.

Il debutto. La prima apparizione pubblica del Rover V8 avvenne nel settembre del 1967 all’Earls Court Motor Show in occasione del debutto della 3.5 Litre (P5B), che sostituiva la 3 Litre (P5), presentata nel 1958 con carrozzeria berlina e nel 1963 in versione coupé. Esteticamente la B era quasi identica alla P5, dalla quale si differenziava per i fendinebbia integrati sotto i proiettori, i rostri dei paraurti con banda in gomma e i cerchi cromati Rostyle sui quali erano montati pneumatici Dunlop RS5 6.70x15 o Avon Turbospeed. Il nuovo V8 pesava 90 kg in meno del 6 cilindri di 3 litri che andava a rimpiazzare, erogava 160 CV DIN anziché 123 e disponeva di una coppia di 29 kgm invece di 22,1. A fronte di tali incrementi, il consumo di carburante rimaneva pressoché invariato.

Restauro parziale. “Quando l’ho acquistata nel febbraio del 2007 - ricorda Sequi - la vettura era stata da poco riverniciata nella sua livrea originale; di conseguenza gli unici interventi di carrozzeria hanno riguardato la ricromatura dei paraurti. Le guarnizioni delle porte invece erano screpolate e tagliate in più punti e così ho dovuto sostituirle con delle ottime riproduzioni realizzate in Australia. Anche la selleria in pelle appariva consunta e di conseguenza è stata rifatta; recuperati invece gli inserti in pregiato legno, per i quali è stata sufficiente un’accurata levigatura e lucidatura”. Nell’estate 2008 Sequi ha rimesso in funzione l’antenna elettrica e l’impianto di aria condizionata Frigette, montato al tempo come accessorio aftermarket.

Ottima accoglienza di pubblico. L’ottima accoglienza di pubblico e stampa riservata al nuovo otto cilindri indusse nel 1968 la Casa a introdurlo anche sulla berlina P6 (lanciata nel 1963 con la denominazione 2000), nel tentativo di attirare una clientela più facoltosa ed esigente. A dire il vero in un primo momento si era pensato a un sei cilindri derivato dal quattro cilindri due litri della 2000; tuttavia esso si dimostrò da un lato troppo lungo per essere alloggiato nel vano motore della P6 e dall’altro eccessivamente pesante, tanto alterare in modo significativo il comportamento della vettura. Con il V8 invece si riuscì a mantenere un buon equilibrio nella distribuzione dei pesi. La trasmissione rimaneva l’affidabile Borg Warner Type 35, la stessa montata sulla P5B. Rispetto alla 2000, le sospensioni, ruote indipendenti davanti (con un complesso schema molle elicoidali poste longitudinalmente) e ponte De Dion al retrotreno, furono modificate nella taratura. L’impianto frenante, che prevedeva quattro dischi (quelli posteriori erano collocati inboard, ossia all’uscita dei semiassi dal differenziale), fu potenziato aumentando il diametro dei dischi anteriori.

Cambio rinforzato. A prima vista la P6B si distingueva per la vistosa presa d’aria sotto il paraurti anteriore. Nel settembre 1970 apparvero su tutta la gamma P6 due bombature longitudinali sul cofano motore, una nuova calandra in plastica nera e un nuovo cruscotto con strumenti circolari. L’anno successivo (settembre 1971) arrivò la 3500 S, dove la S indicava le prestazioni più sportive dovute all’adozione della trasmissione manuale a quattro marce. Il cambio derivava da quello della 2000 TC, opportunamente rinforzato (scatola dotata di nervature) e dotato di una lubrificazione migliorata (capacità maggiorata e pompa interna). La poderosa coppia del V8 comunque metteva a dura prova gli ingranaggi interni rendendo il cambio uno dei punti deboli della vettura. La nuova trasmissione assorbiva meno potenza e migliorava consumi e prestazioni; inoltre essendo più compatta aveva consentito di ridisegnare l’impianto di scarico, con benefici, anche se modesti, effetti sulla potenza e sulla coppia.

Una di famiglia. La S era riconoscibile a colpo d’occhio per il rivestimento in vinile del tetto e per le coppe ruota a raggiera in acciaio inossidabile satinato. La 3500 S in livrea Mexico Brown con tetto in vinile e sottoporta Huntsman Brown ritratta in queste pagine appartiene a Rodolfo Milani Capialbi. Numero di telaio 48401153, uscì dalla catena di montaggio il 31 gennaio 1973; inizialmente destinata al concessionario di Salisburgo (Austria), la vettura finì invece nel salone milanese della Koelliker. “Fu lì che mio padre - racconta Milani - la vide. Appassionato in realtà di Mercedes, aveva posseduto ‘90 SL, 230 SL e 280 SL, stava cercando una berlina elegante, ma poco vistosa. A convincerlo furono le prestazioni e il prestigio del motore V8. E dal 1973 la macchina è sempre rimasta in famiglia”. Un’esistenza tranquilla, nel corso della quale la 3500 S ha ricevuto una scrupolosa manutenzione ed è stata utilizzata saltuariamente (a oggi sono stati percorsi appena 73.000 km).

Il V8-S del 1980. E veniamo all’ultima delle nostre protagoniste, la V8-S del 1980, anch’essa di proprietàCarlo Sequi. Dopo l’acquisizione della Rover da parte della Leyland Motors nel 1967, si fece impellente lo sviluppo di una nuova ammiraglia. Una prima proposta, denominata P8, per una berlina d’impostazione molto classica e dalla meccanica raffinata fu presto abbandonata a causa dei costi proibitivi. Inoltre, i vertici temevano che la nuova vettura sarebbe potuta entrare in concorrenza diretta con le vetture di un altro prestigioso marchio del gruppo Leyland, la Jaguar. Nel 1971 il nuovo progetto, designato con la sigla SD1 (Specialist Division project 1), prese le forme di un’innovativa coupé a cinque porte. Il lancio avvenne il 30 giugno del 1976 e la risposta della critica e del pubblico fu incoraggiante. A convincere fu soprattutto la carrozzeria, dal design molto curato e con un Cx di 0,39, risultato degno di nota per una berlina lunga 4,7 metri e larga 1,77.

Il top della gamma. L’equipaggiamento standard comprendeva servosterzo, chiusura centralizzata, sospensioni autolivellanti, radio, fendinebbia e vetri azzurrati. Solo l’abitacolo deluse il pubblico, che giudicò troppo economici gli interni e i rivestimenti in tessuto sintetico (nel 1978 fu inserita fra gli optional la selleria in pelle). Per offrire un allestimento esclusivo in grado di soddisfare la tradizionale ed esigente clientela Rover, nel giugno 1979 venne commercializzata la V8-S, top della gamma SD1, in un primo momento riservata al solo mercato interno. La dotazione prevedeva aria condizionata, tetto apribile manuale, impianto lavafari, apparecchio stereo con quattro altoparlanti, rivestimenti in moquette spessa e selleria in velluto. Standard il cambio manuale a cinque marce, mentre l’automatico era optional. Un equipaggiamento ricco, ma che faceva lievitare il peso di circa 150 kg. La vernice metallizzata era a richiesta senza sovrapprezzo. I colori erano inizialmente blu, oro e verde. In un secondo momento si aggiunsero il nero (optional) e altri colori della gamma 3500. Esternamente si distingueva per i cerchi in lega (nelle prime 900 erano di colore oro), per i paraurti neri, per le maniglie porta cromate e per una piccola presa d’aria sotto la battuta anteriore del cofano motore per raffreddare meglio l’impianto di aria condizionata.

Un regalo per la moglie. La V8-S rimase a listino fino al 1980, quando fu rimpiazzata dalla 3500 SE. “La vettura - continua Sequi - fu acquistata da Tarchini (fino all’avvento della BL/ Innocenti primo importatore Rover per l’Italia, ndr) l’11 aprile 1980 come regalo per la moglie. Oltre alla particolare tonalità di verde della carrozzeria, egli volle l’aria condizionata Diavia, gli inserti in legno e il volante Nardi”. Ma, si sa, la donna è mobile e dopo pochi mesi la macchina era già in vendita. “Mio padre l’acquistò nel 1981. Per quanto riguarda l’affidabilità, da sempre considerata tallone d’Achille delle vetture inglesi, in 86.000 km ho avuto solo trascurabili problemi alla trasmissione, ma non sono mai rimasto a piedi”. Solo apprezzamenti per la meccanica delle nostre tre Rover. Merito del made in England? Non proprio. Questo straordinario e longevo V8 non nacque infatti in terra di Albione, bensì negli Stati Uniti. Le sue origini risalgono alla seconda metà degli anni Cinquanta, quando la costante crescita delle importazioni di automobili dal Vecchio Continente evidenziò l’interesse del mercato americano verso vetture più compatte e agili, una nicchia trascurata dalla Case di Detroit.

Troppo costoso da produrre. In quel rinnovato clima ove la ricerca della leggerezza era divenuta prioritaria, la Buick avviò lo sviluppo di un motore interamente in alluminio, denominato 215 (numero che identificava la cilindrata espressa in pollici cubi); una scelta tecnica coraggiosa e che pose non pochi problemi. Introdotto nell’autunno del 1960 sui modelli Buick Special, Oldsmobile F 85 e Pontiac Tempest, nel 1963 il suo ciclo vitale si concluse, dopo circa 750.000 unità. Perché una fine così prematura dopo tutti gli investimenti e le difficoltà superate? Semplice, per la GM quel motore si era rivelato troppo costoso da produrre. Non solo, ma il progresso raggiunto nella lavorazione della ghisa consentiva ormai di realizzare monoblocchi con le pareti dei cilindri sempre più sottili, rendendo di fatto meno significativo e appetibile il risparmio di peso ottenuto con l’impiego dell’alluminio. Inoltre, nella prima metà degli anni Sessanta la moda delle compact car era di fatto già tramontata.

Seconda giovinezza. Ma quello che apparve come un epitaffio segnò in realtà l’inizio di una seconda e ben più duratura giovinezza, nel caro Vecchio Continente. Secondo la leggenda, William Martin-Hurst, managing director della Rover in trasferta negli Usa per promuovere i motori Rover a turbina e a gasolio nell’uso marino, durante una visita alla Mercury Marine a Fond Du Lac (Wisconsin) notò il “215” in un capannone in attesa di essere montato su un’imbarcazione da competizione. Egli intuì subito le potenzialità di quel motore, che rispondeva perfettamente alle esigenze della Rover, alla ricerca di un V8 per ampliare verso l’alto la propria gamma. Fu così che la Casa britannica acquisì nel 1965 i macchinari e la licenza per produrlo nello stabilimento di Solihull, in Inghilterra.

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