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50 anni fa, l’addio a Ignazio Giunti

Il 10 gennaio del 1971, Ignazio Giunti morì alla 1000 KM di Buenos Aires dopo aver centrato incolpevolmente la Matra Simca di Jean-Pierre Beltoise. Un incidente dalla dinamica dolorosamente assurda, che privò l’Italia di un pilota di grande talento.

 

Forse qualcuno fra voi con la memoria più lunga ricorda ancora la drammatica telefonata in diretta dell’inviato Lino Ceccarelli ad Alfredo Pigna, conduttore in bianco e nero della Domenica Sportiva del 10 gennaio 1971. Da Buenos Aires, Ceccarelli raccontò da cronista impostato l’incidente mortale e inutilmente assurdo del pilota italiano Ignazio Giunti, impegnato nella 1000 KM sulla Ferrari 312 PB in coppia con Arturo Merzario (…) “Pilota ufficiale ferrari e campione nazionale 1970, è deceduto stamane in seguito all’incidente incredibile durante la 1000 KM di Buenos Aires. Era il 38° giro. La Ferrari prototipo di Giunti, che di lì a poco avrebbe dovuto cedere il volante ad Arturo Merzario, era passata al comando con 44 secondi di vantaggio sulla Porsche 917 5 litri dell’inglese Elford. Da due giri intanto la Matra del francese Beltoise era in panne, senza più benzina, al centro della pista, quasi davanti alle tribune. Il pilota, sceso di macchina, spingeva di qua e di là il suo prototipi per sfruttare meglio le pendenze della pista e raggiungere così il box per il rifornimento. Stava per compiersi il 39° giro quando la Ferrari 512 privata di Parkes e la Ferrari 312 di Giunti s’immettevano a duecento all’ora sulla dirittura. Parkes evitava d’istinto l’ostacolo sfiorando Beltoise. Giunti invece, coperto da Parkes e ingannato dalla sua manovra, non poteva evitare la Matra. L’urto è stato tremendo e tremendo dev’essere stato il contraccolpo per il povero Giunti. Si salvava per miracolo Beltoise. I sessanta litri di carburante ancora nel serbatoio della Ferrari alimentavano le fiamme che per quaranta secondi non sono state combattute dagli estintori per mancanza di uomini e mezzi…”.

E subito: spavento, fuoco, caos, incredulità. L’inutile affannarsi di Merzario, che dai box si lanciò verso la Ferrari trascinata per 150 metri sul rettilineo. I filmati della tv argentina e amatoriali mostrano chiaramente la dinamica dell’incidente. Si chiudono tutti allo stesso modo: con la carcassa inutilmente imbiancata di schiuma della 312 PB abbandonata contro il muretto del rettilineo. Erano anni particolarmente letali per i piloti. La morte di Giunti arriva a pochi mesi dall’unico titolo “ad memoriam” assegnato a Jochen Rindt, dopo la sua morte in prova a Monza; e alla morte di Piers Courage. In estate si era ammazzato Bruce McLaren, nel ’68 era scomparso il migliore di tutti, Jim Clark. Era destino che non finisse lì. Il resoconto telefonico da Buenos Aires gelò lo studio e incrinò il cuore degli appassionati, rimasti incollati al video a tarda ora. Dopo Bandini e Scarfiotti, anche lui. L’ennesima promessa italiana della Formula 1 si spegneva nel fuoco.

Giunti morì a neanche trent’anni. Era nato il 30 agosto del 1941 a Roma, figlio di genitori aristocratici e abbienti. Alle Ferrari era arrivato dalla Giulietta TI presa a noleggio per farsi le ossa nelle gare in salita. Di nascosto, come conveniva ai rampolli delle famiglie-bene. Nel ’64 fu subito secondo nell’Italiano Turismo alle spalle di Enrico Pinto. Nel giro di un paio d’anni, il “Reuccio di Vallelunga” entrò presto nello squadrone Autodelta che, sulle Alfa Romeo GTA, dominò l’Europeo Turismo, l’Endurance e le cronoscalate negli anni Sessanta. Il salto di qualità avvenne nel 1968 quando passò ai prototipi. Si laureò campione italiano Sport sull’Alfa Tipo 33, secondo alla Targa Florio e primo di classe alla 24 Ore di Le Mans. I promettenti risultati dell’anno successivo e il secondo posto nell’Europeo Turismo, sempre sull’Alfa 33, gli aprirono le porte della Ferrari. Prima sulla 512 nell’Endurance dove fra il ’69 e il ‘70 vinse alla 12 Ore di Sebring, fece secondo alla 1000 KM di Monza e si prese il terzo gradino del podio ancora alla Targa Florio e alla 6 Ore di Watkins Glen.

Le colpe di Beltoise e della direzione di gara. Il suo incidente è una piccola parabola su cosa non dovrebbero essere le corse in fatto di procedure, sicurezza, organizzazione e soccorso. Su ciò che andava fatto e quello che la direzione di gara non avrebbe dovuto permettere. Il rischio, quello resterà ancora fatalmente una componente fondamentale. A Beltoise sarà ritirata la licenza di pilota per un mese. Molti non gli perdoneranno mai quella condotta scriteriata, detrito di un automobilismo pionieristico. Ironia del destino, alla metà degli anni Ottanta avrebbe aperto la sua scuola guida “Conduire Juste”, guidare giusto.

Dalla Giulietta TI alla F1. All’inizio del 1970, Enzo Ferrari decise di far correre due piloti per un sedile solo: quello della monoposto 312 da F1 con il V12 piatto. Scelse Gian Claudio “Clay” Regazzoni e Ignazio Giunti, che debuttò Spa in terza fila e, arrivò quarto dopo aver disputato una grande gara. Un’ottima candidatura, ma anche Clay arrivò quarto nel successivo GP dell’Olanda. Il Drake, salomonico, scelse la poltrona per due per il resto dell’anno. Una decisione infelice, che non lasciò esprimere Giunti come avrebbe potuto. Alla fine, il prescelto fu Clay. Eppure, dopo la notizia giunta da Buenos Aires, Ferrari reagì con dolore e furia alla sua morte così assurda. “Aveva talento, tanta passione ed eravamo molti a volergli bene”. Ignazio Giunti morì due ore dopo l’incidente per le ustioni riportate. La sua salma riposa al cimitero del Verano a Roma.

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