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Automobili nella tempesta: un’idea luminosa nell’anno più buio

Il quinto appuntamento con “Automobili nella tempesta” ci riporta al Salone di Torino del 1978, quando la  Megagamma di Giugiaro avrebbe potuto aprire – con sei anni di anticipo sull’Espace di Renault – l’era del monovolume. Il prototipo era pronto per essere prodotto e portava in sé contenuti innovativi che ebbero, in seguito, molto successo.  Ma nessun costruttore, Fiat in testa, aveva il coraggio di fare il primo passo.

 

Il 1978, in Italia, fu un anno di grandi tempeste. La più tremenda, che tutti ricordano, è stata quella del caso Moro. Ma molte altre furono le vittime, oggi dimenticate, della violenza politica rossa e nera. Infuriava lo scandalo Lockheed e arrivarono perfino le dimissioni del presidente Leone. Val la pena ricordare anche l’inflazione, che viaggiava sul 17%, con buona pace dei moderni detrattori dell’Euro. In mezzo a una tale buriana si accesero i riflettori del salone di Torino, ed erano puntati sulla Ritmo.  La nuova Fiat offriva, oltre alla sua estetica notevole, molti contenuti sperimentali, a partire dal ciclo produttivo robotizzato, i paraurti in materiale plastico, la plancia ergonomica. A far brillare la Ritmo contribuivano anche le poche novità giunte dall’estero e persino il mondo dei carrozzieri, all’epoca ricchi e potenti, che quell’anno non riuscì a far sognare. Il numero di maggio di Quattroruote faceva un bilancio della rassegna e giudicava “andante, ma non troppo” il lavoro degli stilisti: due righe, poi, riassumevano la proposta della Italdesign “polemica, ma con una filosofia fondamentalmente interessante: non esageriamo a sacrificare abitabilità e accessibilità”. 

Prudenza industriale. Questa, volendo sintetizzare molto, è la scena su cui il progetto Megagamma venne svelato. Altre due righe bastano, ieri come oggi, a chiarirne il concetto: partire dalla meccanica di una berlina italiana già sul mercato, la Lancia Gamma 2500, per realizzare la prima carrozzeria monovolume, pensata all’insegna del funzionalismo, producibile subito, in grande serie. Il fatto è notevole, anche perché lo sforzo di visione – creativa e tecnica insieme – che portò alla elaborazione del prototipo avvenne nel mezzo di una tempesta, con tutti – come vedremo tra poco – che soffiavano contro o richiamavano alla prudenza industriale. Cosa che per chi vive di ricerca e guarda lontano non ha molto senso. Come spesso accade per le idee il cui tempo specifico è più avanti del tempo corrente, in questa storia il condizionale è rimasto. Il producibile non è diventato prodotto.  “Ci sono voluti sei anni – dice oggi Giorgetto Giugiaro – perché l’automobilista europeo potesse vedere, ed eventualmente acquistare, un veicolo fatto seguendo le nostre intuizioni”. Era l’Espace di Renault, lanciato nel maggio 1984, che seguiva la Nissan Prairie, da noi, però, quasi sconosciuta.

Incompresa. “All’Italdesign, in quell’epoca, dovevamo sorprendere i costruttori – continua il “designer del secolo” – . Da noi non c’erano le linee di montaggio, come da Pininfarina e Bertone, non “producevamo” nulla.  A parte le nostre idee.  Ed ecco allora il desiderio – che è una nota costante di tutto il mio lavoro – di fare del nuovo guardando non solo al godimento estetico, ma a quello funzionale.  In un mondo come quello dell’auto, che tende naturalmente all’edonismo, pochi allora ci capirono”. In effetti la Megagamma non è un oggetto affascinante.  Lo sforzo di farne una vettura prima di tutto ergonomica e funzionale ha imposto scelte che non seguono il gusto condiviso. Le leggi del basso, del piatto e dello slanciato sono contraddette; il disegno “a trapezio” , tutto spigoli e angoli vivi, così tipico degli anni Settanta,  condiziona ogni particolare. Ricorda ancora Giugiaro: “Umberto Agnelli fu tra i più gentili che visitarono il nostro stand. Mi disse “bisognerebbe avere il coraggio di produrre anche un’auto del genere”. Altri chiedevano sorridendo perché avessi fatto una vettura che sembrava il furgone dell’elettricista. Giorgio Alisi, osservatore dei più attenti, disse anche cose più carine, colpito dal fatto che pur avendo accorciato la Gamma di trenta centimetri (alzandola però di venticinque,) fossimo riusciti a dare  più spazio a passeggeri e  bagagli. Ma fu uno dei pochi”.

Un’occasione sprecata. Di fatto, in quel Salone di tanti anni fa, si perse l’opportunità di aprire un nuovo segmento. Di appropriarsi dell’innovazione e aprire un dialogo privilegiato con una fascia di pubblico evoluto, attento alla logica e a ciò che il prodotto fa. Una tendenza che oggi è acquisita, che ha anche trovato una deriva iper-edonistica nel fenomeno SUV, ma che già alla fine degli anni ’70 era percepibile.Eppure tante qualità della Megagamma sono dei veri plus per il consumatore e sorprendono anche oggi: il pavimento completamente piatto, i sedili ad altezza ideale, l’alto padiglione che permette di accedere senza piegare la testa. L’auto è un concentrato di praticità: dal divano posteriore con cuscini asportabili – per rendere ancora più ampio il piano di carico – alla visibilità offerta a chi guida e chi viaggia. 

Tempi moderni. Tornando allo stile, i tratti geometrici e piatti della Megagamma sono imparentati con quelli della Golf (1974), della Delta (1979), della Panda (1980).  E’ lo stile che ha sostituito, quasi brutalmente, il tutto-tondo degli anni Sessanta. Un mondo che oggi, in piena epoca “fusion”,  sembra più che mai fuorimoda. Chiarisce Giugiaro: “Ho già detto che nel lavoro della Megagamma il risultato estetico non era il primo dei nostri pensieri. Ma non ci si può accostare alle lamiere tese delle auto di quell’epoca senza riflettere sulle ragioni, non solo stilistiche, che le hanno imposte. Venivamo dalla moda delle carrozzerie bombate, formose, piene di saldature per farle stare insieme e di stagnature per coprire le cicatrici. Nel giro di pochi anni l’industria si trovò a moltiplicare la produzione, il che voleva dire razionalizzare, semplificare l’automobile. A cominciare dalla carrozzeria. E siccome i robot dell’epoca non erano molto intelligenti, i pezzi dovevano essere facili, poligonali, per poter essere assemblati. E visto che la lamiera doveva essere più sottile, bisognava piegarla e innervarla, per non farla flettere. E dato che i vetri curvi o non c’erano o costavano un occhio, facevamo abitacoli piatti come le vetrine dei negozi”.

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