Aston Martin DB7: la più felina delle Aston - Ruoteclassiche
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04/11/2020 | di Giancarlo Gnepo Kla
Aston Martin DB7: la più felina delle Aston
L'Aston Martin DB7 è tra le più affascinanti GT prodotte a cavallo degli anni 90 e 2000, ma la sua gestazione non fu delle più facili.
04/11/2020 | di Giancarlo Gnepo Kla

L’Aston Martin DB7 fu il primo modello sviluppato dalla nobile Casa inglese dopo l’acquisizione da parte del gruppo Ford. Con oltre 7 mila esemplari prodotti, la DB7 si configurò come il primo grande successo commerciale del marchio.

Lo sviluppo della DB7 venne avviato dopo l’ingresso dell’Aston Martin nell’orbita Ford, proprietaria del marchio dal 1988 al 2007. Con un nome degno delle migliori spy story anni 60, il progetto “XX” venne portato avanti con molte risorse della Jaguar Cars, anche lei sotto il controllo della Ford Motor Company. Il pianale della futura DB7 era infatti un'evoluzione di quello impiegato sulla Jaguar XJS, opportunamente modificato. A onor del vero, l’DB7 era a tutti gli effetti l’erede della Jaguar XJS immaginata da Tom Walkinshaw . Il patron della TWR (Tom Walkinshaw Racing) aveva partecipato allo sviluppo e gareggiato con le Jaguar da competizione nel Campionato Europeo Turismo tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80. Walkinshaw era rimasto impressionato dal potenziale della XJS e intendeva darle un erede con uno stile più moderno: la XJS era stata presentata quasi 20 anni prima, nel 1975.

Si scrive Aston, si legge Jaguar. Il progetto per la sostituta della Jaguar XJS venne avviato a fine anni 80 sotto la guida di Keith Helfet, con il nome in codice XJ41/42 (41 per la coupé, 42 per la cabriolet) e prefigurava una possibile “F-Type”. Per lo stile venne ingaggiato Ian Callum, all’epoca un talentuoso debuttante nel settore del design automobilistico. La crisi che investì Jaguar (e tutte le case inglesi negli anni 80), fece sì che la XJS restasse in produzione per oltre vent’anni. Quando Ford acquisì la Jaguar e l'Aston Martin, la nuova direzione cancellò il progetto della Jaguar XJ41/42 nel 1990 in quanto richiedeva un budget troppo elevato. Il colosso americano preferì investire nello sviluppo della Jaguar XJ220, un modello che secondo i vertici aziendali avrebbe rappresentato la punta di diamante della produzione britannica e una nuova pietra miliare tra le supersportive. Per questo motivo l’Ovale blu non era molto propenso a sviluppare nuovi modelli Aston Martin, che storicamente si attestavano su volumi di vendita molto più bassi.

L’arte di arrangiarsi. Walter Hayes, all’epoca amministratore delegato dell’Aston Martin, invece intuì il potenziale della proposta di Walkinshaw e colse la palla al balzo: a Ian Callum venne richiesto di ridisegnare l'auto in modo che assomigliasse il più possibile ad una Aston Martin. I fondi erano limitati, “l’Aston Martin del 2000” costò complessivamente 30 milioni di dollari, una cifra quasi irrisoria considerando le ingenti risorse finanziarie da mettere in campo per la produzione un nuovo modello. L’Aston Martin DB7 finì quindi per condividere molti componenti con modelli di altri marchi di proprietà Ford: la fanaleria posteriore proveniva dalla Mazda 323 F, le maniglie dalla Mazda 323 Estate, gli indicatori di direzione dalla Mazda MX-5, mentre gli interruttori degli specchietti interni provenivano dalla Ford Scorpio. Gli unici elementi provenienti da un’auto estranea al gruppo erano gli specchietti retrovisori: gli stessi della Citroën CX.

Furore! L'Aston Martin DB7 debuttò con clamore al Salone dell'Automobile di Ginevra del 1993: l'accoglienza verso la nuova granturismo di Casa Aston fu travolgente. La risposta positiva spinse anche Jaguar a utilizzare la stessa piattaforma per l’erede ufficiale della XJS. La vettura del giaguaro, ridisegnata da Geoff Lawson venne presentata nel 1996 e venduta come Jaguar XK8. Le due auto condividevano lo stesso pianale e proporzioni vagamente simili, sebbene la DB7 fosse molto più costosa della XK. La DB7 è stata progettata dalla TWR di Walkinshaw a Kidlington, nell'Oxfordshire. La TWR realizzò i propulsori durante tutta la produzione del modello. Tra queste, anche lo speciale prototipo personale di Walkinshaw, equipaggiato con motore V12 e un assetto dedicato. A Newport Pagnell, sede storica dell’Aston Martin continuava in parallelo la produzione della Virage, che intanto venne ribattezzata "V8". Per la DB7, prodotta a partire dal 1994, venne adibita una nuova linea produttiva nel nuovo stabilimento di Bloxham, nell'Oxfordshire, lo stesso utilizzato per la produzione della speciale Jaguar XJ220.

Via il tetto! Le DB7 sono state le uniche Aston Martin prodotte a Bloxham e le sole a viaggiare su un telaio in acciaio di origine Jaguar. Secondo la tradizione, le Aston Martin facevano ampio uso di alluminio e questo fece storcere il naso ai puristi. Dalla DB9 in poi, sostituta della DB7, tutte le Aston del 21° secolo sono tornate ad utilizzare l’alluminio per il telaio e molte parti della carrozzeria. L’elegante versione convertibile venne presentata di Detroit del 1996 e come di consueto, la variante cabriolet prese il nome di “Volante”. Come la coupé, montava inizialmente un propulsore sei cilindri in linea sovralimentato da 335 CV e 489 Nm di coppia, basato sul motore Jaguar "AJ6". La DB7 si configurava come modello "entry level" della gamma Aston Martin, al vertice dell’offerta restava la V8 Virage: un modello molto costoso che però iniziava ad accusare il peso di una linea legata ai canoni anni 80, seppur aggiornata alle tendenze anni 90.

Non lascia, raddoppia! Nel 1998 la Works Service mise a punto uno speciale pacchetto “Driving Dynamics”, che migliorava notevolmente le prestazioni e la maneggevolezza della DB7. In questo caso, sotto il cofano trovava posto il poderoso V8 da 6.3 litri della Virage. Tra le peculiarità: le due gobbe sul cofano motore con le griglie a nido d’ape color ottone per assicurare il raffreddamento alla cavalleria supplementare. In vista del pensionamento della Virage, al Salone dell'automobile di Ginevra del 1999, per elevare il prestigio del modello venne presentata la DB7 V12 Vantage. Questa nuova versione era equipaggiata con un potente V12 da 5,9 litri e 48 valvole, dalla potenza di 420 CV. Due le opzioni per la trasmissione: un cambio manuale Tremec T-56 a sei marce o l’automatico ZF “5HP30” a cinque velocità. Aston Martin sdichiarava una velocità massima di 299 km/h e un'accelerazione da 0 a 100 km/h in 5,1 secondi. A livello estetico, le Vantage erano riconoscibili per gli specchietti retrovisori aerodinamici e i grandi fari fendinebbia ellittici sotto i fari. Sul posteriore spiccava la targhetta distintiva "DB7 Vantage".

Più precisa. Con il lancio dei modelli Vantage, le vendite della DB7 ”base” calarono bruscamente, perciò produzione dei modelli 6 cilindri terminò nel 1999. Nel 2002 venne lanciata una nuova variante, denominata V12 GT (GTA se dotata di cambio automatico). Si trattava di una versione migliorata della Vantage: il motore 12 cilindri erogava 435 CV e 556 Nm. La GTA mantenne invece il motore della Vantage “standard”. In entrambi i casi, ne giovò la maneggevolezza: le sospensioni vennero riviste. Rispetto alla Vantage, la GT aveva una griglia anteriore a maglie larghe, prese d'aria sul cofano e uno spoiler sul baule. All’interno, spiccava la leva del cambio in alluminio, su richiesta gli inserti in fibra di carbonio. Nuovo anche il disegno dei cerchi, mentre l’impianto frenante Brembo prevedeva dischi ventilati anteriori da 355 mm e da 330 mm al posteriore. Si tratta di modelli piuttosto rari, della GT e della GTA sono state realizzate complessivamente 302 unità: 190 GT e 112 GTA.

Veste all’italiana. Nell'agosto 2002, durante il Concours d'Elegance di Pebble Beach, venne presentata in anteprima l’Aston Martin DB7 Zagato. Il modello rinsaldava la storica partnership tra l’atelier milanese e il marchio britannico. La “Zagato” venne poi presentata a titolo ufficiale durante il Motor Show di Parigi nell'ottobre dello stesso anno. Di questa variante fuoriserie vennero realizzate 99 vetture (più la centesima per il museo Aston Martin), tutte vendute. La carrozzeria era in acciaio e vedeva la collaborazione tra Andrea Zagato e Martin Henrik Fisker, all’epoca responsabile dello stile Aston Martin. Come da tradizione, anche la DB7 presentava la caratteristica "doppia bolla" Zagato sul tetto. All’interno, pregiati rivestimenti in pelle Anilina, specifici per questa serie limitata. Così come i cerchi in lega a cinque razze nell’esclusivo disegno Zagato. L'auto era disponibile solo per il Regno Unito, Europa e Sud-Est asiatico.

Solo per belle giornate. L’Aston Martin DB7 Zagato era basata sul modello Vantage con motore potenziato a 435 CV. A differenza della successiva DB AR1, la Zagato viaggiava su un telaio accorciato: il passo era più corto di 60 mm e la lunghezza complessiva era di 211 mm inferiore. Inoltre, con 59 kg in meno rispetto alla DB7 Vantage, la Zagato accelerava da 0 a 100 km/h in 4,9 secondi. La DB AR1 (acronimo di American Roadster 1) venne presentata al Los Angeles Auto Show nel gennaio 2003. Basata anche in questo caso sulla DB7 Vantage Volante, la AR 1 era disponibile, invece, per il solo mercato statunitense e non prevedeva aveva alcun tipo di copertura. Per ovviare a questo limite, uno dei fortunati possessori, il collezionista Robert Stockman commissionò alla Zagato lo sviluppo di un piccolo tetto pieghevole ad azionamento elettrico: un cappello molto leggera che si ripiega dietro i sedili quando non è in uso.

Poco Aston, tanto fascino. Con oltre 7.000 esemplari costruiti dal 1994 al 2004, la DB7 è stata la prima Aston Martin a far registrare volumi di produzione nell’ordine delle migliaia di unità. I collezionisti tendono a snobbarla: è un’Aston Martin poco… Aston, ma forse in un’epoca in cui la globalizzazione diveniva particolarmente importante nelle dinamiche industriale, la DB7 rappresentava il primo passo verso la modernità per un marchio legato a tecniche di produzione divenute insostenibili all’alba del Terzo Millennio. Inoltre, le va riconosciuto, e qui in pochi potranno dissentire, che l’Aston Martin DB7 è stata una della granturismo più sexy degli anni 90. E non solo.

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